“La casa mangia le parole”, l’esordio narrativo di Leonardo Luccone
Quando si parla di esordio, il termine viene usato per indicare l’ingresso nel mondo letterario di un nuovo autore, una scoperta fatta da qualche brillante editor. Per Leonardo Luccone la scrittura è già elemento naturale da molti anni. Oltre ad aver recentemente pubblicato “Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto” con Laterza, vincendo il Premio Giancarlo Dosi per la divulgazione scientifica, ha tradotto e curato volumi di scrittori angloamericani, come John Cheever e F. Scott Fitzgerald, tra cui per la minimum fax “F. Scott Fitzgerald. Sarà un capolavoro - Lettere all’agente, all’editor, e agli amici scrittori”.
Con il romanzo “La casa mangia le parole”, edito da Ponte alle Grazie, ci troviamo di fronte a una mano abile, un cronista molto coscienzioso, per dirla con Nabokov, che narra la storia di una famiglia, i De Stefano, a partire dal 2011, ma in un giorno particolare, dove il tempo è riuscito a ingrigire una città, Roma, e quel piccolo residuo di sole d’inverno, un giorno in cui il freddo penetra nel cappotto, tocca la pelle fin sotto la camicia mal stirata. Proprio quel Capodanno del 2011 si apre con una coppia in crisi che parte per l’Abruzzo, imboccando l’autostrada verso l’Aquila fino ad arrivare a Giulianova, e poi nelle Marche in un piccolo paese avvolto dalla collina dove vivono gli anziani genitori di lei, ignari di tutto, della separazione di fatto, dei ricordi spezzati, e della circostanza che nessuno aveva voglia di rompere un equilibrio, o l’idea di una madre “che vive per questi giorni”, sperando fosse sempre Natale. I De Stefano erano agli occhi di tutti una coppia ideale. E da qui il filo della storia inizia a svolgersi su diversi piani, tra passato e presente, tra il benessere di una famiglia e la dislessia del figlio Emanuele, forse superata. Il gioco che innesta Luccone è duplice. Da un lato la storia, dall’altro, i concetti, le riflessioni, la meta letteratura che entra in campo per dare una cornice ai fatti, al declino di una borghesia, ai cambiamenti epocali. Scorrono come fotogrammi vari eventi, che non posso rimanere inosservati, hanno bisogno di sedimentazione che Luccone recupera anche dalla morte di un cane: dietro questo lutto c’è un elenco di cose che viene trascinato nel gorgo, la tomba a forma di aiuola più o meno quadrata, un dolore disperso, un sorriso mesto, l’assenza di una croce e quattro piantine agli angoli, una finestra, le frasi che la madre pronuncia lungo il vialetto: “Corbusier, pure se non ce la faceva più a camminare, volevo che c’era”. Le parole diventano come oggetti disposti sul piano narrativo per arrivare a focalizzare un ricordo, che è simbolo, così come viene messa in luce quella sorte di cantilena, per cui il cane, morto da tre settimane, “non è arrivato a Natale”.
De Stefano è un ingegnere, lavora per l’azienda romana Bioambiente, ed è legato all’amico Moses Sabatini, un ecologista italoamericano. E dentro la minuziosa crisi della struttura socio familiare, c’è l’agognata promozione che deve arrivare per lui nell’azienda. Tutto sembrava perfetto in quel capodanno, anche quella promozione in arrivo, eppure, dietro l’apparenza, i segreti sconvolgeranno la vita. Non tutto quello che ci separa dalla realtà è vero, non tutta la realtà porta a mantenere felice un’esistenza. E così anche Moses, che starà vicino al protagonista, ospitandolo persino a casa, si rivelerà poi in un’altra veste, inaspettata. A libro finito si ha l’impressione che il titolo sia stato scelto come misura del flusso comunicativo dentro la vita della coppia, ma anche come luogo di ricerca del tessuto narrativo e delle parole stesse da usare nella storia, fino ad arrivare a un nodo che può spegnere le speranze, perché il silenzio è sovversivo. Di fronte al vuoto, in un legame sentimentale il bivio sarà tra il facile rifugio nel silenzio, nelle omissioni, o la rottura delle apparenze, tra una coscienza sopita e addormentata, o l’autocoscienza che implode ma mette a nudo ciò che è possibile fare. E la messinscena dentro un mondo borghese fatto di apparenze diventa il simbolo, la caratteristica per descrivere un ceto romano imbolsito. Nella famiglia De Stefano, in fondo, ci sarebbero tutti gli ingredienti per garantirsi la felicità. Il non detto diventa, però, il loro codice, per rompere un equilibro, e il segreto che nasconde Moses trasformerà l’intera storia, attratta in una vertigine di eventi. |