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FORMA DI VITA E LETTERATURA NELLA CASA BLU

Con il romanzo “La casa blu”, edito dalla e/o (2016, pagg. 141, Euro 10,00), Massimiliano Governi si conferma scrittore di assoluto interesse, per essere riuscito a cucire una solida intelaiatura tutta in forma dialogica, alternativa alla sola descrizione narrativa, all’interno di un viaggio tra padre e figlio, in un percorso lungo, dentro un’automobile, che si trasforma, come per metafora, nel cammino di un uomo, lì dove ha scelto la fine della vita, il suicidio assistito.


È la lotta tra il coraggio e l’ultima possibilità, è lo scambio di mani tra padre e figlio, in una scrittura delicata, intimista, dove nascono domande di un passato che deborda, un confronto generazionale, che inizia subito, sul piano formativo, tra le prime pagine, con una confessione autentica:

«Anch’io ti devo dire un segreto».
«Dimmi».
«A me la trilogia non è piaciuta per niente. Troppi dialoghi. Lo stile troppo semplice. Si annuncia sempre chi parla. “Nonna dice”. E poi “Io dico”. L’ho finita, perché me l’avevi consigliata tu, ma leggendola come se leggessi l’elenco del telefono».

Libri, sì, letteratura come quella della “Trilogia della città di K.” di Ágota Kristóf, o ancora Foster Wallace, per esaltare un gesto, per avere una risposta, per cercare un ponte tra due generazioni, verso l’ultimo interrogativo, la visione di un futuro breve, troppo, inarrestabile, se non con una volontà che acceca tutto.

Un uomo senza nome, è questa una delle scelte di contenuto per questo romanzo, a rimarcare che sono i gesti a dover parlare, le parole, e non un mero appellativo. Un uomo che è padre, capace di narrare quel luogo dove è nato l’amore, dove tutto ha avuto inizio per lo stesso figlio, la scuola di scrittura dove insegnava, vicino alla stazione Tiburtina, in Via Arezzo, l’emozione del primo incontro con una donna, la madre di suo figlio che ora ascolta, rapito, le parole di un genitore, di quando lei, con la pelle chiarissima, aspettava l’autobus.

Il dialogo come elemento funzionale per mettere a nudo, per far salire in superficie tutta la fragilità umana, le allucinazioni, i rimorsi, ma anche per conoscere un figlio, inaspettatamente, quando rivela tutta l’attenzione per i particolari, per il tono di voce del padre, le scarpe, strane e grosse, i capelli, stopposi, eppure tutto è legato a doppio filo con la sensibilità e l’acutezza, tanto da riversarli in un racconto scolastico, dove la traccia era “Descrivi un personaggio letterario o cinematografico che ti ha affascinato particolarmente”.

Un tema svolto a scuola, che ora il figlio legge al padre, e riesce a leggerlo perché “l’ho fotografato con il telefonino”.
Arriva nel racconto il personaggio della tv, di un serie televisiva, al centro del tema nella scuola, al centro della similitudine, del memoir, di un giovane ragazzo che guarda un padre con gli occhi del cinema, fino a sorprenderlo. E il padre diventa un talento naturale per convertire la timidezza in un tentativo di intimidire, un uomo decisamente troppo gentile, schivo, solitario, la cui sensibilità è il suo destino, concentratissimo e, allo stesso tempo, distratto da qualcosa di superiore.
L’ultimo essere filosofico rimasto in un mondo senza terra.

La casa blu è in Svizzera, la depressione è ovunque, la dignità è la nuova ricerca, i ricordi del Grande Gatsby sono lo sfondo di un lontano passato, di un sogno.

E ritorna tutto, come un’ossessione, l’idea, la litania dell’orrore di una strage familiare, in agosto, quella di “A sangue freddo”, il richiamo letterario di Truman Capote, il ruolo di uno scrittore, raccontato da chi prende le distanze dalla vita che è ora solo una sbornia lucida, fino a porre il dogma: uno scrittore deve esporsi a ogni costo, essere vulnerabile.
Nessuna mediazione. Nessun inganno. Il lettore sa, e arriva dritto là dove è stato condotto, senza orpelli.
Perché la vita stessa non inganna, lo stile asciutto non deve ingannare, i pensieri sopravvivono in una sorta di testamento, nella mente di chi sta accanto. Ed è forse questa l’ultima speranza che traspare in controluce nel fondo di questo romanzo, dove la scrittura cerca espedienti per mescolare emozioni e riflessioni, diviene partecipe, protagonista di un futuro, di un mattone per il futuro, il ricordo. Accanto, però, c’è l’ossessione, giocata in bilico tra l’adolescenza e l’essere genitore, tra la carne viva e la malattia, in un dialogo tra due voci fatte per fondersi.

Massimiliano Governi, dentro un viaggio verso la completa autodeterminazione, compie un doppio salto, poggiando prima il dito sulla forma del romanzo, limitrofa alla verità, quella che rompe il postulato e apre un percorso culturale intriso di una sorta di patto di alleanza terapeutica, più stretta, tra medico e paziente. A questa riflessione cruda è funzionale Truman Capote, la misura, lo scrittore, l’impotenza e la letteratura, il confronto, asservito al rispetto di un rifiuto ultimo, assoluto: anche Capote “A sangue freddo” si era misurato con l’oggettività di un fatto, per approdare al necessità di un romanzo verità.
E, infine, Governi sembra pescare nel buio torbido della paura, richiamando insistentemente quel romanzo, quell’autore, Capote nelle scene di sangue, come se volesse far affiorare qui tutte le paure, a dire che niente può nascondersi, e che anche l’orrore e il panico sono una componente ineliminabile dentro questa scelta, dentro questo cammino.
La debolezza chiama la debolezza, la sofferenza finisce solo quando finirà la cura.
Alberto Sagna
27-10-2016

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